Con il termine periferie, dal greco “perí” (“intorno) e “pherein” (“portare”), si indica l’insieme di zone di una città esterne o marginali ad essa.
Generalmente si tratta di aree urbanizzate in seguito allo sviluppo demografico e all’inurbamento.
Ripercorrendo brevemente i fenomeni che condussero alla formazione delle periferie sicuramente partiremmo dalla rivoluzione industriale,con la quale si assistette alla migrazione di notevoli masse di contadini dalle campagne verso le città industrializzate per la ricerca di lavoro. Con il tempo gli assetti originari delle città non riuscirono più a soddisfare la nuova richiesta insediativa e nacquero problematiche di tipo sociali e sanitarie di enorme rilievo, che portarono allo sviluppo della disciplina urbanistica.
La richiesta sempre più pressante di alloggi spinse alla realizzazione di case senza eccessiva cura e con poca attenzione ai servizi, spesso assenti o presenti in maniera insufficiente. Le periferie di Londra, Manchester e di altri centri industrializzati si presentavano sempre più affollate di edifici per operai, costruiti in modo frettoloso, senza molta distinzione formale tra essi e con le abitazioni quasi sempre sovraffollate.
Si presentò così l’esigenza di dare un assetto decoroso ed igienico agli edifici, di gestire il processo delle costruzioni per dare risposta alle richieste abitative dei cittadini e di dotare le città di servizi (fogne, illuminazione, strade e trasporti in genere, luoghi di ritrovo, di socializzazione, di cultura, ecc.). Nacque dunque l’esigenza di gestire la struttura dell’intera città e del territorio, nonché la previsione di realizzare efficienti opere infrastrutturali per rendere meno dura la vita nelle città.
Molti furono i contributi teorici e progettuali che si originarono da tali spinte insediative, a partire dagli inizi del 1800 con l’opera di utopisti come Furier, Owen e Godin fino a piani veri e propri come quello di Haussman a Parigi e Cerdà a Barcellona nella metà dell’ottocento, Berlage ad Amsterdam agli inizi del 900 e molti altri ancora.
L’ottocento e il novecento rappresentano dunque i secoli delle metropoli e delle periferie, poiché modernità in architettura e urbanistica prima di ogni altra cosa ha voluto dire crescita urbana ininterrotta e costruzione intensiva di quartieri residenziali low-cost per le classi sociali meno abbienti.
In quest’epoca l’antitesi “centro-periferia” inizia a farsi prevalente sulla precedente antitesi “città-campagna” ed ancora oggi, anzi forse oggi più di ieri, rappresenta un tema dominante nel dibattito urbanistico.
Le periferie sono spesso vissute come sinonimo di emarginazione e allontanamento, rappresentano quartieri che, lungi dal crescere e moltiplicarsi secondo un piano formalizzato di ‘città moderna’, hanno nella maggior parte dei casi finito per disporsi disordinatamente intorno ai centri antichi e ottocenteschi, gettando le basi per lo sviluppo informe delle attuali metropoli e megalopoli.
È nato in questo modo l’archetipo di periferia moderna costruita sull’alternanza tra case, inserti rurali residuali e quartieri industriali (le case servivano in origine a dare alloggio agli operai, secondo un’applicazione libera e disaggregata del modello fourierista).
Dagli anni Trenta in poi le periferie urbane sono cresciute con ritmo esponenziale, alimentate dallo sviluppo industriale intenso e dunque da flussi ininterrotti di immigrazione verso le città.
Nonostante le contraddizioni e i conflitti insiti all’interno del concetto stesso di periferia, essa ha comunque rappresentato fino agli anni settanta lo stendardo del progresso.
Con il tempo però le aree periferiche hanno mostrato sempre più svantaggi rispetto al centro cittadino, sia dal punto di vista urbanistico e funzionale, che dal punto di vista socio-economico.
La crisi della periferia è diventata ben presto argomento centrale delle problematiche legate alle città.
Si può dire che dalla metà degli anni Settanta in poi, non a caso dopo l’entrata in funzione in Italia di alcuni progetti di alto valore simbolico e/o ideologico e di scarso successo sociale (Gallaratese, Zen, Corviale ecc.), il concetto di periferia ha perso ogni accezione progressiva per rimanere solo l’indicatore spaziale di un disagio fatto di distanza dal centro, carenza di servizi e infrastrutture, ritardo nell’integrazione, tensione sociale, senso di emarginazione.
La periferia è dunque diventata un non luogo, privo di connotati sociali e di identità, quindi un luogo anonimo, un luogo staccato da qualsiasi rapporto con il contesto sociale, con la tradizione, con la storia, la cui identità è definita proprio dalla mancanza d’identità.
Questo è dunque il quadro odierno della situazione delle periferie che in termini architettonici alla fine rappresenta la città moderna.
Ad oggi è dunque più che percettibile la necessità dell’estensione delle qualità di polifunzionalità, di mescolanza sociale e di presenza di servizi urbani capaci di fare,della periferia, elemento strutturale dell’intera città.
Diversi possono essere gli approcci da mettere in campo.
Si può infatti intervenire sulle periferie puntando a riqualificare una area degradata attraverso un solo edifico, un solo momento compositivo a cui affidare la capacità di trascinamento della qualità degli interventi successivi.
Innestare cellule virtuose in ambienti urbani devastati dalle sovrascritture.
Così come proposto da Richard Meier a Barcellona.
Egli, riconoscendo all’architettura un’importante concezione sociale, ha calato il Museo d’arte contemporanea all’interno di un’area desolata, quasi decrepita, dove sperava di poter gettare le basi per una rinascita urbanistica. La storia gli ha dato ragione, rivitalizzando una porzione di città, El Raval, quasi dimenticata. La concezione alla base del progetto è che il museo dovesse appartenere alla città, non essere un altro monumento di cui vantarsi. Le persone che vivono in quell’area avrebbero potuto apprezzarlo e vedere migliorato con esso il luogo della loro vita.
Dall’altra parte c’è la proposta del tutto attuale di “rammendare le periferie” di Renzo Piano. Egli, sfruttando la nomina di senatore a vita, ha formato il gruppo G124 per puntare alla realizzazione di diversi progetti di riqualificazione delle periferie. Piano sostiene di non dover far crescere ulteriormente quest’ultime esternamente, ma internamente, ossia cercare di agire su ciò che è già stato costruito e sulle opere precedentemente iniziate e mai finite.
Sono tre i progetti di riqualificazione delle periferie finora realizzati dal gruppo G124.
Il primo a Torino, in Borgata Vittoria, quartiere residenziale dove dagli anni ’50 abitano famiglie di operai della Fiat. Da allora quelle case sono diventate dormitori, senza neppure un luogo di incontro. Il rammendo qui ha significato semplicemente ridare vita a un giardino pubblico, che era stato costruito sopra un parcheggio interrato e da tempo abbandonato. Nel progetto anche la bonifica di una scuola, un prato da destinare a campo calcio e un marciapiede-lavagna tutto da colorare.
l secondo progetto nasce a Roma e ha riguardato il viadotto dei Presidenti nella zona Nuovo salario (pensato negli anni ’90 come asse di collegamento tra Roma Nord e Roma Sud attraverso una ferrovia leggera) trasformato in una sorta di high line newyorkese con una pista ciclabile, un corridoio circondato da piante dove camminare e una piazza dove incontrarsi.
l terzo rammendo è invece localizzato a Catania. Precisamente nel Campo San Teodoro di Librino, ricettacolo della malavita, luogo di spaccio dove da tempo gli abitanti denunciavano di sentirsi abbandonati, esclusi, considerati serbatoio di voti e nello stesso tempo cittadini di serie B. Quello che G124 ha fatto è stato restituire ai cittadini una palestra finora occupata dall’associazione Briganti del rugby ma praticamente inutilizzata perché il comune non rilasciava l’autorizzazione. Al centro sportivo, nel progetto, si collega anche uno spazio all’aperto utilizzato per orti sociali.
Forse, ripercorrendo l’evoluzione delle trasformazioni urbanistiche, dei moti migratori dalle campagne alla città e dalle città alle periferie, bisogna comprendere che oggi l’energia sociale, produttiva e umana è proprio in quest’ultime. I centri storici, spesso anche abbandonati per una mancata politica di conservazione, presentano infatti una percentuale urbana molto bassa.
Le periferie reintegrate con essi, potrebbero diventare centri nevralgici di progresso economico e sociale. Se non avvenisse questo auspicato intervento sulle periferie consegneremmo alle nuove generazioni città caotiche e disordinate, in cui la componente sociale avrebbe già perso ogni valenza umana.
D’altronde ogni zona urbana, centrale o periferica che sia, che torna a vivere, apre altresì nuove opportunità economiche per chi le riqualifica ma anche e soprattutto per chi le abita e le vive.
Ma siamo sicuri che “E’ importante liberare le periferie dall’aspetto di quartieri dormitori, ma attrezzarle di servizi, di parchi e negozi in modo da restituire loro vita.” non sia una nuova utopia, disegnata dagli artefici del degrado urbanistico?
Quando incide la sicurezza urbana nel degrado urbano?
Quando incidono i layer etnografici sul tessuto urbano?
Quando incide la normativa, sulle strategie progettuali interscalari?
Quando incide la scelta delle teorie architettoniche/urbanistiche?
Quando incide la capacità o incapacità della discrezionalità amministrativa?